La mia esperienza in campo oncologico nasce assolutamente non per caso, ma per una serie di eventi spiacevoli che purtroppo in prima persona mi sono trovata a vivere. Ma come ci insegna saggiamente Paul Hawken: “Ogni problema è un’opportunità camuffata” e così è stato anche per me. Essendomi ritrovata a dover gestire nella mia famiglia il dolore e la paura derivanti dall’esperienza della malattia oncologica, ho cominciato a domandarmi se e come sarebbe stato possibile migliorare la qualità di vita di queste persone e dei loro familiari.
La malattia oncologica, come qualunque malattia grave e (spesso) cronica, pone alla nostra attenzione una serie di problematiche molto particolari e specifiche. Il paziente oncologico si trova, innanzi tutto, a dover gestire l’impatto devastante che deriva da una diagnosi così spaventosa; perchè, se è vero che oggi la percentuale di guarigioni è notevolmente aumentata, è altrettanto vero che nessuno riesce a pensare di rientrare in tale percentuale nel momento in cui apprende la terribile notizia. Come ben sappiamo infatti “Contro la paura della morte, i sotterfugi della speranza si rivelano inefficaci quanto gli argomenti della ragione (E.Cioran) ”; è quindi praticamente inutile qualsiasi rassicurazione-spiegazione razionale, che per il paziente risulta essere come pioggia su un impermeabile. Conseguentemente, ci si trova ad affrontare una miriade di problemi, che spaziano dalla gestione dei sintomi fisici devastanti causati dalle cure chemio- e radioterapiche, all’affrontare le forti emozioni che coinvolgono, generalmente, l’intero nucleo familiare.
Il percorso psicologico di un paziente oncologico (e talvolta dell’intera famiglia) si differenzia da quello della maggior parte degli altri pazienti, in quanto è inevitabilmente un percorso a lungo termine; perchè, se è vero che nella maggior parte dei casi la malattia viene sconfitta, è altrettanto vero che il monitoraggio di essa avviene poi per la restante vita della persona, con le conseguenti problematiche che derivano da tutto ciò. Non va inoltre dimenticato che proprio perchè oggi la percentuale di guarigione è notevolmente aumentata, vi è sempre un numero maggiore di pazienti che necessitano di un sostegno psicologico anche dopo che il tumore è stato sconfitto, ovvero nella fase di riabilitazione. Nonostante ciò, quello che si riesce ad ottenere a breve termine è lo sblocco della situazione di sofferenza; la qualità di vita dei pazienti sembra migliorare velocemente e notevolmente con l’ausilio della Terapia Breve Strategica e questo potrebbe senza dubbio essere un nuovo possibile traguardo da raggiungere, in un campo ancora poco esplorato e molto temuto.
Per comprendere l’importanza del lavoro strategico con i pazienti Oncologici, è necessario iniziare analizzando le principali emozioni di base di questa tipologia di pazienti:
➢Il Dolore (solitamente è l’emozione principale)
➢La Rabbia
➢La Paura
Tali emozioni possono esprimersi sotto forma di pensieri intrusivi ma anche a livello di malessere psicosomatico. Inoltre, Se analizziamo le principali TS dei pazienti oncologici (ciò che tentano di fare in reazione al problema) si può osservare come essi generalmente tendano a:
●Evitare la situazione problematica o ciò che la ricorda (es: tentare di non pensarci)
●Parlarne (e lamentarsi) oppure chiudersi a riccio
●Richiedere eccessivo aiuto agli altri (sopratutto familiari)
A livello Strategico, adottare con questi pazienti un approccio Narrativo comporta numerosi benefici e ci aiuta notevolmente a superare le difficoltà incontrate nel percorso di malattia. Ma Perché è così efficace la narrazione in Psiconcologia? Prendendo in considerazione le suddette premesse, la narrazione risulta molto efficace in Psiconcologia perché scrivendo:
● Le emozioni provate (dolore, rabbia, paura) vengono elaborate, finché la persona si distacca gradualmente da esse.
●Si blocca il tentativo di evitare il problema, dando uno spazio specifico e delimitato a tali emozioni in modo da imparare a gestirle e non viverle più come intrusive.
●Si permette al paziente di esternalizzare le emozioni ma al tempo stesso evitando di coinvolgere eccessivamente gli altri; in questo modo si impedisce il diffondersi della sofferenza e si incrementa nel paziente la capacità di coping e il senso di autoefficacia.
Più in dettaglio, studi sulla memoria e sul sistema nervoso (Van der Kolk, 1994; Rothschild, 2000; Janssen, 2006) ci spiegano come la narrazione sia utile dopo un evento traumatico, in quanto:
●Permette di trasferire i ricordi negativi dalla memoria motoria a quella narrativa.
●Permette di ricodificare i ricordi e le emozioni sotto forma di racconto, dando loro una struttura, una cornice.
●Dando una forma narrativa e verbalizzabile ai ricordi essi vengono elaborati: si ha una vera e propria ristrutturazione percettiva dell’evento traumatico.
La narrazione viene utilizzata in modo strategico e con successo nel protocollo per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (F.Cagnoni e R.Milanese, 2009), nel quale possiamo includere ragionevolmente anche l’esperienza oncologica:
“Vorrei che da qui alla prossima volta in cui ci rivedremo, lei ogni giorno prendesse carta e penna e scrivesse quello che noi chiamiamo “Romanzo del Trauma”, ovvero la cronaca dello splendore dei disastri che le sono capitati, e che le stanno capitando, vorrei che mi raccontasse in dettaglio tutto il trauma vissuto…partendo dal presente per andare a ritroso nel passato, ogni giorno dovrà scrivere raccontandomi tutto nel dettaglio, ok? Una volta scritto, chiuda senza rileggere e la prossima volta porterà a me tutto ciò che ha scritto”.
Il “Romanzo del Trauma”, oltre ad essere efficace per tutte le ragioni sopraindicate, ha anche un’altra importantissima funzione, ovvero quella di facilitare e consolidare la relazione terapeutica. Il paziente infatti entra in forte intimità con il terapeuta e inoltre, nell’atto di consegnare tutto ciò che ha scritto, si fida e si affida al tempo stesso. Tutto questo incrementa di gran lunga la Compliance.
L’uso della narrazione crea talvolta resistenza nei pazienti, questo perché scrivere risulta essere molto doloroso ed è una richiesta opposta a ciò che fin’ora il paziente ha tentato di fare. Per far si che la persona accetti una simile prescrizione, il terapeuta deve essere estremamente bravo a far “sentire” che quello è l’unico modo per venir fuori dalla sofferenza provata. In altre parole: “l’unico modo per venir fuori dal dolore è passarci nel mezzo” (Robert Frost) o usando le parole di Fernando Pessoa: “Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire”. Il Romanzo del Trauma, con il progredire della terapia, viene usato solo al bisogno, cioè nel caso in cui alcune emozioni dolorose riaffiorino e abbiano bisogno di essere trascritte e archiviate. È quindi uno strumento che la persona apprende ad utilizzare in caso di necessità e che permette il superamento dei momenti critici. La persona si sente così non più spettatore ma attore, in grado di gestire la propria realtà problematica.
La qualità di vita non può essere considerata un lusso, ma è un diritto che dobbiamo riconoscere ai nostri pazienti, in modo particolare a quelli oncologici, che sempre, pur talvolta negandolo o mascherandolo, sono sofferenti nel corpo e nella mente. Dare alla persona sofferente degli strumenti efficaci di gestione della realtà problematica ci permette, a mio avviso, di riconoscere a pieno questo diritto e di vederlo in ogni momento salvaguardato.
In questa prospettiva potremmo ragionevolmente includere tutte le malattie definite “croniche”, nelle quali la vita delle persone coinvolte risulta fortemente compromessa e comprensibilmente stravolta. Ma questo non ci deve portare a pensare che niente possa essere fatto per migliorare tale realtà dolorosa e solo apparentemente immutabile.
Come Huxley ci insegna, “La realtà non è ciò che ci accade, ma quello che facciamo con ciò che ci accade” e la psicoterapia, anche in questo caso, consiste proprio nell’insegnare alla persona come mutare il proprio punto di vista e come gestire una realtà scomoda, ovvero quella della malattia oncologica. Il lavoro psicoterapeutico consiste primariamente nel dare al paziente strumenti efficaci di gestione del problema che, una volta appresi, potranno essere utilizzati autonomamente al bisogno. In questo modo è possibile passare da una percezione di totale perdita di controllo, data appunto dall’evento malattia, a una percezione opposta, basata sulla gestione dell’evento problematico, in un’ottica di vero e proprio coping attivo. La persona passa così dal ruolo di spettatore a quello di attore, in grado di agire sulla realtà e sulla percezione degli eventi: in altre parole, diventa resiliente e capace di far fronte agli urti in arrivo.
Giunti alla fine di questo breve ma spero esaustivo articolo, credo che il modo migliore di concludere sia ricordare il pensiero di P.Watzlawick:
“La psicoterapia diventa l’arte di costruire una realtà che ci dia l’illusione di trovarci in armonia con il significato della vita”.
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